March 2013
Sangria . . .
070313 Archiviato in:bere . . .
Dose per una festicciola di una quindicina di persone
(altrimenti che party è?)
* Cinque bottiglie di vino rosso di corpo, come la Barbera di migliore qualità, un Chianti, un Cannonau, un Nero d'Avola
* Mezzo litro di Prosecco extradry o dry freschissimo e spumeggiante
* Cinque stecche di cannella scelte profumatissime
* Un paio di bacelli di vaniglia
* Cinque pesche gialle sode
* Cinque arance
* Un limone
* Una ventina di chiodi di garofano
* Quattro bicchierini di Cointreau
* Quattro bicchierini di porto rosso non secco
La sangria va preparata tra le sei e le tre ore prima d'essere servita. Prima di prepararla tenete in frigorifero tutto il vino.
Pelate le pesche (a qualcuno la pelle potrebbe non piacere ed alcuni ne sono addirittura intolleranti) e tagliatele a pezzetti regolari di circa un centimetro e mezzo di lato.
Pelate a vivo le arance, poi tagliatele a rotelle di tre quarti di centimetro di altezza, poi dividete ogni rotella in quattro, togliendo i semi.
Tagliate in rotelle sottili il limone ed ognuna in quattro parti.
Mettete tutta la frutta in un cratere o in una insalatiera capace, aggiungete le cinque bottiglie di vino rosso, il Cointreau ed il Porto.
Spremete l'arancia rimasta, filtrate il succo con un colino e unite al resto.
Aggiungete i chiodi di garofano, le stecche di cannella e ponete tutto nel frigorifero, coprendo con pellicola trasparente.
All'ultimo istante aggiungete il Prosecco ben freddo.
Nota del cuoco
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Non lesinate sulla qualità delle materie prime. La Sangria è prima di ogni cosa profumo e solo gli ingredienti migliori possono soddisfare sotto questo aspetto.
Il vino non deve avere retrogusti amarognoli ne carattere eccessivo. Io ho usato la Barbera Classica d'Asti di Gianluigi Orsini (2 bottiglie) e la Barbera d'Asti Barricata (3 bottiglie) sempre di Gianluigi Orsini. La barrique è tipica di molti vini spagnoli ed allarga lo spettro odoroso della nostra stupenda bevanda.
Molte ricette usano l'acqua minerale al posto del vino bianco frizzante. Io consiglio il Prosecco Extra Dry di Le Vigne di Alice, per il suo profumo fruttato, per la grande effervescenza e per il fatto che non schiarisce la sangria come farebbe l'acqua. Ovviamente il tenore alcolico è leggermente più alto, ma non molto (mezzo litro di acqua su quasi cinque di altri alcolici non abbasserebbe comunque di molto la gradazione).
Guai a sostituire le stecche di cannella con la cannella macinata. La sangria si intorpidisce e non c'è verso di farla tornare limpida.
Il Cointreau potete sostituirlo col Grand Marnier o con del brandy (però in quest'ultimo caso perdete un po' di profumo).
Non sono d'accordo con chi prepara la sangria il giorno prima, perché la frutta diventa inguardabile. Perché i profumi siano passati al liquido, un due o tre ore sono più che sufficienti, meglio tre o quattro, ma non è il caso di superare le sei / otto ore.
la città che vorrei . . .
010313 Archiviato in:pensieri . . .
Credo che ognuno di noi dovrebbe tracciare dentro di sé la sua città ideale e lavorarci per costruirla, per modificare quella in cui vive in direzione di quella in cui vorrebbe vivere. La città è una creatura dell’uomo e come tale è assolutamente modificabile. Purtroppo l’evoluzione delle città sta seguendo, dal dopoguerra ad oggi, dei ritmi di evoluzione che superano di gran lunga quelli dei propri cittadini e così ci svegliamo un mattino e non riconosciamo più i luoghi della nostra città: ma quel negozio di coloniali così grande e antico dove si trovavano le cose più strane, davvero ha chiuso? e la vecchia merceria dell’angolo, dove c’era il vero filo di qualità? Noooo? chiusa! e il panettiere che faceva le michette a mano e la vecchia trattoria casalinga dove potevi mangiare cibi fuori moda come gli ossibuchi, insieme ai camionisti che guardavano il telegiornale?. . . insieme a loro ti accorgi che sono cambiati anche gli incroci che . . . a momenti ci restavi secco, ma quando l’hanno cambiato? ? E ci sono segnali stradali nuovi che non si capiscono neanche tanto bene e ci sono rotonde da tutte le parti e quel cinema che costava due lire andarci adesso è diventato di "prima” e il vecchio parrocchiale non c’è più e se ti allontani dal centro ti scontri con nuove monumentali edificazioni che, all’imbrunire, sembrano quasi ombre mostruose aggrappate al paesaggio consueto e al posto di un prato c’è un grande parcheggio di cemento e al posto di un vecchio frutteto c’è una serie di villette nuove fiammanti e . . . insomma, piano piano, ci si abitua ai nuovi profili ma ciò che racconta l’anima di una città sono i suoi abitanti e come essi vivono i loro spazi.
La città in cui vorrei vivere è un articolato mosaico di spazi e di persone che si compone delle parti più belle di quelle che mi è capitato di conoscere. Ha le dimensioni della mia città, che permettono una mobilità tranquilla in cui l’uso dell’auto non è una necessità reale ma un vizio di comportamento di questa società. Ha l’aria tersa di una città del futuro, quel futuro nel quale tutti avremo capito che una limitazione privata diventa un bene collettivo e che un bene collettivo è anche un bene privato e se un condizionatore in casa migliora la temperatura interna peggiora tuttavia l’aria che respiriamo per le strade, dove ci passa ognuno di noi.
La città in cui vorrei vivere ha grandi giardini e grandi orti, luoghi in cui sperimentare le mani e ricordarsi del ciclo della riproduzione della natura; luoghi in cui rammentare l’esistenza del limite: certe piante in inverno da noi non crescono e se io le compro lo stesso al supermercato significa che arrivano da qualche posto lontano o che qualche artificio innaturale è stato attuato per farle crescere. L’esperienza di un orto e di un giardino, anche comuni, dove poter “calpestare le aiuole” ma soprattutto capire di cosa sono fatte le aiuole è una grande didattica di vita. Ha case spaziose, la mia città, ma non troppo alte né troppo vicine affinché la luce le possa curare in ogni ora del giorno. Quando non esisteva la grande invenzione - per carità - dell’impianto di riscaldamento le case venivano costruite con maggiore attenzione al “percorso solare”, una preziosa fonte di illuminazione e di riscaldamento di cui oggi finiamo quasi per dimenticarci, salvo quando arrivano i black-out!
La mia città ha luoghi magici di incontro: uno è il mercato, come ad Iringa, una piccola città di provincia dell’Africa orientale. Il mercato è un luogo fisso, non invade per ore un posto destinato ad altro, non paralizza a giornate la vita della città ma fa parte di essa come luogo di scambio e di incontro. Scambio le merci ma incontro le persone. Compro, acquisto, spendo, incasso chiacchiero, mi informo e creo relazioni, quelle che mi permettono di reincontrarmi l’indomani nella festosità che è l’essenza stessa di un mercato. Il mercato di Iringa come di tante altre città africane - mi vengono in mente i bazar del Maghreb - è il trionfo della creatività, dei colori, dell’allegria, dell’arte di tessere relazioni che non sono sempre e soltanto orientate alla vendita.
Un altro luogo magico è il teatro nel quale non solo accogliere la creatività che viene dall’esterno, ma nel quale sperimentare la propria, quella che qualifica l’anima di una città: un teatro che inscena le vecchie tradizioni e che sperimenta parimenti il futuro. Un teatro che non ha bisogno di passerella ma che crea per il piacere di farlo, che non si preoccupa troppo della qualità ma piuttosto della sincerità e della spontaneità della sua produzione. Un teatro accessibile che ricrei il mai sopito istinto alla rappresentazione che sta dentro ciascun essere umano, come mostra in maniera plateale un certo tipo di televisione.
Nella città in cui vorrei vivere c’è la solidarietà, che non è quella di campanile ma quella che viene dalla conoscenza dell’altro, dal vivere accanto, dal condividere gli spazi, i problemi e le occasioni di festa. E’ quella che nasce dalle piccole comunità di quartiere e che si dilata negli spazi comuni nei quali mi misuro con gli altri senza paura del colore dalla loro pelle o delle scelte che fanno. E’ una città che accoglie ogni nuovo membro, perché sa che ogni arrivo è una ricchezza che si innesta su un tessuto solido che può permettersi di cambiare il motivo della propria trama. E’ una città che aspetta e si predispone ad accogliere il nuovo perché non teme di perdere le solide radici piantate nella propria storia. E’ una città che si adopera per essere autosufficiente poiché è consapevole che in natura esistono cicli chiusi: nulla si crea e nulla si distrugge, tutto si ricicla . Nella mia città i cittadini si impegnano in attività di lavoro che ricadano sul territorio e si assumono le loro responsabilità nella riduzione e nel riciclaggio dei propri scarti.
Utopia! - dirà qualcuno. Certo, ma se non si comincia dagli ideali, da dove si parte ?